Andrea Gavosto interviene su La Stampa e su altri quotidiani: a che cosa servono e a che cosa non servono le prove standardizzate
Non è più una sorpresa, ormai. All’approssimarsi delle date in cui agli studenti di II e V primaria, di III media e di II superiore vengono proposte le prove Invalsi, il dibattito nella scuola e nei media italiani sull’utilità e l’affidabilità di questi test torna a infiammarsi.
Spesso, però, le posizioni e i giudizi che si ascoltano sono il frutto di pregiudizi ideologici o anche di pura e semplice disinformazione, come quella di chi dispregia le prove Invalsi bollandole come stupidi “quiz” oppure le critica perché i quesiti non c’entrerebbero nulla con ciò che a scuola dovrebbe essere insegnato. Permangono poi la resistenza e lo scetticismo di tanti insegnanti, che continuano a temere che i test Invalsi possano essere utilizzati per una valutazione del lavoro del singolo docente, con potenziali conseguenze in termini di premi, sanzioni, prospettive di carriera. Un timore che anni di poca chiarezza e insufficiente comunicazione sulla questione da parte del Miur e dei ministri susseguitisi non hanno certo aiutato a dissipare.
Nel suo Rapporto La valutazione della scuola (Laterza 2014), la Fondazione Agnelli ha affrontato il tema dell’utilità delle prove standardizzate di apprendimento nella più ampia prospettiva della costruzione del nuovo Sistema Nazionale di Valutazione della scuola.
Intervenendo con un articolo su La Stampa e un’intervista su il Fatto Quotidiano, Andrea Gavosto ritorna su questi temi. Anche il Corriere della Sera, peraltro, in articolo di Gianna Fregonara sui timori della scuola verso le prove Invalsi riprende alcune argomentazioni del Rapporto.